Ci sono gli sport estremi e poi c’è la cinefilia estrema, chi ha partecipato alla Mostra del Cinema di Venezia 2020, primo festival in presenza dopo il lockdown, non ne è certo esente e dunque non ha faticato poi molto a identificarsi nel protagonista di Yellow Cat (Zhltaya koshka) del regista kazako Adilkhan Yerzhanov. Presentato nella sezione Orizzonti, Yellow Cat è infatti la storia Kermek, un ladruncolo per fame appena uscito di prigione e con un sogno da realizzare: costruire un cinema nella steppa kazaka per omaggiare il suo mito, l’Alain Delon di Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo, in italiano) di Jean-Pierre Melville. Ma un gangster locale ha ben altri piani per lui e farà di tutto per arruolarlo nella sua improbabile, ma piuttosto spregiudicata gang. Non resta, al povero Kermek, che darsi alla fuga nella steppa, in un rocambolesco e surreale road-gangster movie la cui meta ha il sentore di un vero e proprio nostos: verso una casa-patria che poi è anche la sede prescelta per il (suo) cinema, entità divina evanescente, distante e a tratti un po’ sadica, che tutto osserva e da cui tutto scaturisce. Incluso questo film. Ad affiancare poi questo antieroe cinefilo sui generis nelle sue (dis)avventure, ecco arrivare la spettinata prostituta Eva, dal pallore e dal temperamento lunare. Quanto ai “cattivi”, c’è tutto un sottomondo mafioso che pare uscito dal nostrano Cinico TV, con tanto di scagnozzo che parla in falsetto, gioca a calcetto nella steppa e ha una vistosamente posticcia “pelata” in stile clownesco incollata sulla testa. Sbirri corrotti in monopattino, musiche elettroniche stordenti, oggettistica vintage (un proiettore super8, un giradischi) e tramonti kazaki notoriamente radiattivi completano il quadro.
Folle e appassionato, grottesco e a tratti assai divertente Yellow Cat contiene, come è giusto che sia, diverse citazioni cinematografiche. Si parte con Le samouraï, naturalmente, e poi si prosegue con gli scorsesiani Casinò (la scena memorabile della proposta di matrimonio di De Niro a Sharon Stone) e Taxi Driver (in questo caso è superfluo sottolineare di quale scena si parli) e con Singin’ in the Rain. Infine, Yerzhanov si toglie anche lo sfizio di omaggiare il celebre dipinto di Wyeth Il mondo di Cristina, che in fondo è già “proprietà” della settima arte, dato che veniva trasferito in immagine in movimento sia in I giorni del cielo di Terrence Malick che, e in maniera ancora più esplicita, in Forrest Gump di Robert Zemeckis.
È tutto un film dentro un film, cinema che respira e trasuda cinema Yellow Cat, dove non è difficile rinvenire poi il tocco surreale e attonito di un Aki Kaurismaki o il sentimentalismo dolente di un Takeshi Kitano. Un film cinefilo indirizzato ai cinefili dunque, ma in fondo anche grazioso e tenero quanto basta per poter sedurre un pubblico più vasto, se mai avrà l’occasione di vederlo. Con un pizzico di cinismo bisogna ammettere che proprio questo intento seduttivo di Yerzhanov, questo suo strizzare l’occhio al “suo” pubblico di riferimento alla lunga può stancare, così come la connotazione del protagonista può condurre a ragionare su quel “never go full retard” di cui si disquisiva – al confine tra teoria del cinema e demenzialità – in Tropic Thunder di Ben Stiller. Tuttavia va riconosciuta a Yellow Cat una sincerità di fondo, un umanesimo gentile che si palesa soprattutto nello sguardo dedicato al personaggio di Kermek e all’altrettanto borderline compagna di sventure Eva. E poi, certo c’è l’omaggio al cinema, venato di un amour fou romantico, folle, irrazionalmente devoto. A questo anche i recensori più cinici hanno difficoltà a opporre resistenza.