Cinelapsus: THE GENTLE INDIFFERENCE OF THE WORLD (2018)

Source: Cinelapsus: THE GENTLE INDIFFERENCE OF THE WORLD (2018)

Voglio che mi sia spiegato tutto o nulla. E la ragione è impotente di fronte a questo grido del cuore. Lo spirito, risvegliato da questa esigenza, cerca e non trova che contraddizioni e sragionamenti. Ciò che io non comprendo è senza ragione. Il mondo è popolato da questi irrazionali, ed esso stesso, di cui non capisco il significato unico, non è che un immenso irrazionale
Camus, Sisifo

Capita anche in una Cannes di transizione, così mediocre e così assonnata, di trovarsi davanti – almeno negli ultimi giorni – a qualche splendida sorpresa. L’ultimo film della selezione di Un Certain Regard è questo The Gentle Indifference of the World del kazako Adilkhan Yerzhanov, una gemma particolarissima e quasi démodé nei suoi tempi come nei suoi spazi. Un’opera che vive innanzitutto della sua sceneggiatura, per svilupparsi poi in qualcosa di altro, più caldo e allo stesso modo distante. In mezzo ci sono sempre amore e morte, ma è la loro declinazione a risultare profondissima, drammatica eppure così viva. Siamo nella steppa sonnolenta, dove la splendida Saltanat (colta, emancipata e sensibile) si trova davanti al dramma del padre suicida per debiti. Per salvare i brandelli della sua famiglia lacerata dovrà chiedere aiuto allo zio, anch’egli protagonista nel buio dell’illecito, che la vorrà moglie di un suo socio d’affari. A una prima negazione di lei la situazione non si sblocca, e al suo accettare un destino così perfido sarà il suo amico d’infanzia (divenuto il suo amato) a ribellarsi. Ma il dramma è vicino, quanto la fine a cui nessuno potrà dare una risposta. Tornano in mente quelle gocce di sangue rubino che nell’apertura del film corrodono il candore di una lucente rosa bianca.

The Gentle Indifference of the World è una parabola sull’onore, o su quello che ne resta, in una società senz’etica e corrotta nella morale. Parte così questo saggio moderno e astratto sull’indifferenza, che svanisce nell’esistenzialismo più duro scavando nella pieghe di un destino già scritto; l’indifferenza è proprio quella di Camus, amato dagli amanti, evocato come punto di fuga e di speranza di una realtà che non conosce i propri limiti di crudeltà. Sarà lui che farà incontrare, come in un eterno ritorno, queste figure disegnate nel paesaggio – lei bellissima e intelligente, lui rozzo e dolcissimo – proprio per il bisogno di appartenersi (emblematici sono i libri di lei che lui legge, dopo giornate di lavoro disumano, quasi per poterla conoscere meglio). L’antidoto contro il dolore del mondo (quello dei grandi, della città, lontano dal paradiso agreste della taiga) è la stessa loro strenua lotta per la sopravvivenza nei confronti di un reale materialista che nega l’umanità dell’esserci; quasi come se Yerzhanov sviluppasse gli atti vorticosi del suo dramma attorno a una coscienza filosofica in grado di metaforizzare pure una certa astenia politica e sociale, e da questo poi si evolvesse creando una sublime stratificazione, immediata nella sua complessità di occhio come di cuore. In tutto ciò la morte, la perdita irreversibile della fisicità, pare non intaccare l’entità di un sentimento ferito che continua a pulsare e vivere come entità autonoma, motto dell’anima, resistenza nei confronti del male.

In tutto questo, la straordinarietà del film di Yerzhanov è il suo porsi continuamente controcorrente, mostrando in campi lunghissimi una dorata pianura incastonata tra i monti, illuminata da continue luci di taglio e baciata dai raggi del sole, al cospetto di interni distanti e tormentati. Sono suggestioni letterarie, pittoriche e musicali dalla naturalezza potentissima, simboli autoctoni di civiltà, rimandi a una cultura pienamente asiatica e imperscrutabile, raggelate dall’humor noir di uomini senza scrupoli pronti a vendersi proprietà, donna ed addirittura la propria esistenza. Il sacrificio (di lui nel salvare lei) è liberazione, esplosione di un desiderio malinconico di vita che sopravvive alla morte nell’atto di essere filmato, quello che ha l’utopia ardente di ridisegnare un mondo senza tempo e spazio, un’utopia dell’amore che sia parola come immagine. Da lì parte l’ultimo piccolo e immenso viaggio, in cui la bassa definizione della fotografia spezza il fiato per profondità e toni, e porta all’impossibilità di una fuga (inseguiti da misteriosi miliziani che apparsi tra i cespugli) in cui i ragazzi mostrano come la vita mai e poi mai potrà essere l’opposto della morte, perché essa non ha opposti per identità. È proprio per questo che la disperazione, nemmeno la più truce, potrà mai vincere contro l’affetto e le ragioni dell’anima. The Gentle Indifference of the World è un film particolarissimo, dal fascino sottilissimo ma assoluto, simbolico e metaforico ma estremamente fisico e materico. Due corpi e due anime che lottano dall’eternità per un’altra eternità. Il loro essere non è più deriva, ma immaginario purissimo e stilizzato, dove il primitivo condanna la società a un fuoricampo ideale ed ellittico, e dove quell’appartenersi è un ultimo sguardo infinito, in cui il martirio eleva l’anima a un altro livello di realtà, di coscienza e di sensibilità. Quasi come spuntassero dalla sua finestra, assai simile a quella della casa in campagna, Pessoa e il suo senso dell’appartenersi, dal di fuori e/o dal di dentro, dove la vita è il lato esterno della morte. Ed ecco allora che Yerzhanov guarda l’indifferenza del mondo come favola sul sublime, e così la filma e la monta, perché «il lato di fuori è sempre più vero del lato di dentro, tanto che è il lato di fuori quello che si vede».

Erik Negro